Rileggere L’altra Grace

agnese baini
5 min readOct 23, 2020

Riprendo dopo qualche anno un libro che per me è stato molto importante. Si tratta di L’altra Grace (titolo originale: Alias Grace), pubblicato nel 1996, uno dei romanzi più importanti della famosa scrittrice canadese Margaret Atwood.

Il romanzo ripercorre una storia vera: Grace Marks fu incarcerata nel 1843 perché ritenuta l’esecutrice di uno dei crimini più scandalosi del Canada ottocentesco: l’omicidio del suo datore di lavoro, Thomas Kinnear, e della governante e amante di questo, Nancy Montgomery. Grace allora aveva sedici anni.

Atwood ha lavorato su materiali di archivio, articoli e testi del tempo trovando infine un modo per raccontarci la storia di Grace, che altrimenti sarebbe rimasta soltanto un fatto di cronaca, una curiosità. Grazie a questo libro, vediamo come ci sia una storia intrigata e confusa e come la società abbia punito una povera giovane ragazza e che cosa abbia voluto vedere in lei — una pazza.

È l’anno 1851. Tra qualche mese compirò ventiquattro anni. È da quando ne avevo sedici che sono rinchiusa qui. Sono una prigioniera modello, non creo problemi. È così che dice la moglie del Direttore, l’ho sentita. Sono brava a sentire quel che la gente dice senza farmene accorgere. Se sto abbastanza buona e tranquilla, forse mi lasceranno andare, dopotutto; ma non è facile stare tranquilla e buona, è come stare appesa all’orlo di un ponte dopo che sei già caduta: sembra che non ti muovi, che stai solo lì penzoloni, eppure ci vuole tutta la sua forza per stare lì.

La storia inizia così ma la sapiente penna di Atwood ci fa muovere nel tempo: dal 1827, anno di nascita di Grace, al 1872 — no, non posso scrivere cosa succede in questo anno. All’inizio di ogni capitolo ci sono versi, poesie, ritagli di articoli dei giornali dell’epoca, verbali dei processi; all’interno del capitolo ci sono delle lettere scritte da e a differenti protagonisti del libro e ci sono, soprattutto, i dialoghi tra Grace e Simon Jordan. Simon è un dottore, ma non di quelli di cui Grace ha paura («suppongo che lei sia venuto a misurarmi la testa»), è un dottore diverso:

Grace racconta a Simon e a noi la sua vita. Il tema del raccontare è centrale nella produzione di Atwood; mi vengono in mente due testi: uno tra i più conosciuti, Il racconto dell’ancella — con riflessioni sull’autenticità di chi sta narrando — e uno un po’ meno conosciuto, Il canto di Penelope — in cui l’autrice dà la parola a Penelope per narrare la guerra di Troia. In Atwood c’è sempre qualcuno che può parlare e qualcuno che non può farlo e ci ricorda che non tutti i discorsi sono validi ed autentici.

Noi lettrici e lettori ascoltiamo, insieme al signor Jordan, la storia che Grace ci racconta e siamo portati a credere che sia lei ad avere ragione. Soltanto che è Grace stessa a mettere in dubbio la sua versione dei fatti: «Posso anche raccontarle delle bugie, dico» oppure: «Mi metto di buona volontà a raccontargli la mia storia, cercando di renderla interessante quanto mi riesce e ricca di avvenimenti, per ricambiargli il regalo». Continua così:

«Che gli dirò, quando torna? Vorrà sapere dell’arresto, del processo, di quello che si è detto. Alcune cose per me sono ricordi confusi, ma potrei tirar fuori qualche episodio per lui, come quando frughi tra gli stracci alla ricerca di qualcosa che faccia al caso tuo, che dia una nota di colore, e trovi un pezzo di stoffa ancora buono. Potrei dirgli così»

Grace sta tessendo la trama che noi andiamo ad ascoltare. Non abbiamo soltanto una tessitura ma tre differenti significati e momenti che, per mantenere la metafora, si intrecciano tra loro: Grace, durante le sue giornate, tesse trapunte; nel frattempo, cuce una narrazione dei fatti e, infine, c’è l’azione da noi compiuta mentre leggiamo per interpretare i diversi punti di vista. Mi viene in mente quanto questa azione, del cucire stoffe e del cucire narrazioni, sia un elemento ricorrente nella scrittura femminile: da Penelope a Celie ne Il colore viola della scrittrice Alice Walker.

Il libro pone dunque delle riflessioni riguardo al come le narrazioni plasmano e creano la realtà e che non tutti, o meglio tutte in questo caso, possono parlare ed essere credute. Chi ha il diritto di raccontare la propria storia e chi ha il diritto di far sentire la propria versione? Grace è internata ormai da anni, ma quante volte ha potuto raccontare la propria versione e quante volte è stata creduta? Non molte, dato che è stata imprigionata e poi trasferita dal carcere al manicomio. Mi piace pensare che Grace sia lucida e molto furba e che gioca con noi che ascoltiamo, ci osserva e ci dà quello che vogliamo sapere. Almeno, questa è la mia interpretazione ma sono pronta ad ascoltare e discutere le mille altre possibili interpretazioni.

Un altro elemento è il contesto. Grace e la sua famiglia emigrano in Canada dall’Irlanda e, appena giunti a Toronto, la ragazza deve trovare un lavoro per aiutare nel mantenimento della famiglia. È durante l’ennesimo lavoro che svolge che accadono i due omicidi — di cui uno è appunto il suo datore di lavoro. L’avvocato sembra essere capitato per caso e, come Grace ci dice, è lui a imboccarla con le parole che deve dire in tribunale.

«La colpevolezza non deriva da quello che hai fatto, ma da quello che gli altri hanno fatto di te»

Grace non viene mai creduta e viene punita perché è una donna, perché è giovane, perché è un’immigrata irlandese, perché è povera e perché viene additata come matta. Mi sembrano tutti buoni motivi perché, invece, noi possiamo fare lo sforzo di leggere la sua storia come ci è stata tramandata da Margaret Atwood e credere alle sue parole.

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agnese baini

Leggo libri, scrivo articoli, registro podcast e, soprattutto, passo il tempo a bagnare piante.